viaggio con mia moglie proprio in America. Un mese passato a realizzare una sorta di “coast to coast” a modo nostro.
Nulla a che vedere con la route 66 descritta da Kerouac in “On the road”, o forse solo idealmente sulla scia di quel modello avventuroso, beat, di cui ho dato minimale cenno nel capitolo sugli anni 70. Ah, e ho poi chiuso l’altro post, il capitolo sugli eighties proprio “zompando a pie` pari” nel 1994. Giusto probabilmente a questo punto ripartire da qui. L’arrivo negli USA di quel fine Giugno rovente del 1994, le file chilometriche alla dogana, dati i mondiali ancor piu` problematiche e affollate del solito. Poi, l’immediata trasvolata verso la citta` degli angeli, da Washington DC, quasi piu` lunga del volo dall’Italia agli States e i bagagli persi, recapitati a Los Angeles fortunatamente il giorno dopo.
All’epoca fumavo, appena giunto a LA dopo 20 e piu` ore trascorse in zone “smoking free”, rammento l’accendermi fuori dall’aereporto in California, la sigaretta, in un’afa insostenibile e uno smog da tagliare col coltello, e l’immediato arrivo del solerte funzionario sbucato dal nulla a dirmi: “Sorry Sir, smoking is forbidden in this area”. Welcome to the US, dunque. Per noi della vecchia Italia dove ancora si fumava ovunque non poterlo fare neanche all’aperto suono` come esser stati catapultati su Marte.
Paese di grandi contraddizioni l’America, almeno ai miei occhi. Detto della coltre di smog che poteva trasmetterti il cancro per direttissima e molto prima della mia cicca, ti poteva capitare di assistere a campagne di vario tipo, in un paese gia` ”Health conscious” , come ad esempio vedere espressi suggerimenti alla popolazione riguardo all’igiene orale, su giganteschi billboard, cartelloni stradali con la scritta “Don’t forget to brush your teeth” (non dimenticare di lavarti i denti), oppure comprare uova recanti sulla confezione la scritta “cholesterol free” (e che gli date da mangiare alle galline?). Incredibile e divertente per me in quel momento.
Il mio viaggio era organizzato in modo non intenzionalmente alternativo rispetto ai mondiali pero` per uno strano scherzo del destino quando la squadra italica giocava ad ovest, io mi trovavo ad est e viceversa. Il girone rocambolesco nel quale gli italiani passarono per differenza reti, terminato con tutte le squadre (Irlanda, Norvegia e Messico) a pari punti (4) gli azzurri lo giocarono a Washington e New York, mentre io ero ad Ovest. La finale con il Brasile venne giocata a Pasadena quando io ormai ero a New York. A LA manco a dirlo, mi ritrovai a parlare di calcio e scommettere, sfottermi con i dipendenti messicani dell’albergo, identificato immediatamente come italiano e dati i “tip” elargiti interlocutore privilegiato sul soccer, disciplina di cui i messicani pensavano i gringos, gli yankee, non capissero nulla. Come dargli torto?
Era L’italia dell”Arrigo imbottita di milanisti per la quale la mia simpatia era prossima allo zero. L’unico ad accendere la fantasia, quando finalmente si sveglio`, Roby Baggio. Dalla partita con la Nigeria, uno squadrone che ci sovrastava fisicamente, a quelle temperature assurde. Si giocava spesso in orari come mezzogiorno o le tredici a trenta e piu`gradi all’ombra per ragioni televisive e accomodare i vari fusi orari e con le aquile africane eravamo sotto di un goal. Ci penso` lui, il divin codino, sino ad allora discusso per le prestazioni non di livello. Roberto Baggio ci porto` in finale attraverso una serie di goal e belle partite. Che comunque non mancai di vedere in televisione, in albergo o nei bar prima di Los Angeles e poi di San Francisco.
La squadra azzurra ci arrivo`anche grazie al “cul de sac” (no non e` francese e` il fondoschiena fortunato dell’Arrigo), ad esempio graziati con la Spagna dopo il misfatto di Tassotti ai danni di Luis Enrique, un colpo in faccia a tradimento da vigliacco assoluto. La finale la vidi in un ristorante di New York a pranzo, a Little Italy, gestito da sedicenti italiani e con i camerieri magrebini che tifavano Brasile a dispetto della clientela di americani ed italiani che parteggiavano per gli azzurri. Un quartiere gia` allora ridotto ad una sola strada circondata da un’altra delle tante Chinatown del mondo.
Situazione comunque divertente e surreale per un tifoso blando come me. Una partita bruttina giocata al rallentatore dato l’orario e il caldo, persa ai rigori. Ah e cibo pessimo direi. C’era col Brasile ma non mise piede in campo, un ragazzino di cui si diceva un gran bene, tale Luis Nazario da Lima. Assistemmo invece al pianto di gioia di “lacrima” Bebeto, compagno di reparto di Romario.
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